Claus Rudolph
Sicuramente felliniano e circense insieme chi, come il tedesco Rudolph, chiama a raccolta per i suoi lavori fotocinematografici gli elementi divergenti e discordanti della posa teatrale e dell’impellenza umana, quest’ultima presente all’appello con tutte le sue tante impos(taz)ioni estetico-relazionali che si rifanno sempre a qualcosa di visto e/o voluto. Forse, a volte, di sognato, quando dormiamo e ci aspettiamo che i nostri simili facciano lo stesso, così da lasciarci liberi di immaginare, di accorpare cose e valenze che abbiamo captato durante la vita e conservato al sicuro, dentro una memoria solo nostra alla quale accedere quando vogliamo andare via da dove ci troviamo.
Aiuta, distrae e concentra, ricorrere a una parata di simbolismi amalgamati costruita con l’attenzione con cui il cinema prepara il suo spettatore allo spettacolo di sensi e momenti che a volte caricano ed altre indeboliscono, rendendoci sempre protagonisti fittizi di una finzione alla quale ci adattiamo.
Rudolph elegge plausibili ricordi ricorrenti e disparati, residenti in reminiscenze senza età, e li chiama a deporre all’interno di uno stesso scatto mnemonico che diventa collage di attimi trascorsi e malinconici, di istanti attesi e mai arrivati, di lampi dolorosi che, si sa, presto o tardi ci raggiungeranno.
Avvalendosi di climi lindi e saturi, di composizioni contraffatte ma spaventosamente scorrevoli, Rudolph propone barocche illusioni bloccate senza prima e senza dopo, utili a riempirci di una sana e paradossale improbabilità dei fatti rappresentati, di un surrealismo in costume che studia ogni minimo dettaglio attoriale e scenografico recitante.
Tra flaccidi sollevatori di pesi in bretelle sopra un tavolo in mezzo a tutti, tetti “importanti” diventati palchi come se usciti da una sceneggiatura del KenRussel di “Gothic”, un funerale notturno e un’energica freak che alza un trattore tra fenomeni da baraccone di ogni stazza, Rudolph ci regala un benefico impossibile, trainante verso un immaginario che cita il tutto e l’ovunque, che richiama ogni cosa e il nulla, simile a una pantomima di Alejandro Jodorowsky che danza sulla realtà per prelevarne acutamente alcune parti.
Ebbene sì, Claus: amarcord. Mi ricordo…
Stefano Elena
Opere
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