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Andrea Mariconti

Il rumore bianco – meglio, un suo effetto – coincide con una forma di silenzio apparente, un’onda o una radiazione di frequenza tanto indifferenziata da non essere immediatamente percepibile: una forma di contraddizione o di paradosso acustico che fa si che si percepisca il rumore solo al momento della sua assenza: ci si rende conto che si stava sentendo un rumore e non un silenzio solo quando si verifica un silenzio effettivo.

Anche il bianco – il colore bianco – del resto sembra essere un elemento contraddittorio, non avendo una connotazione univoca e aprendo una gamma di richiami semantici eterogenei, divergenti, a volte sovraposti e interferenti: mistico, domestico, sublime, intimo, inospitale, antisettico, umorale, ospedaliero, nuziale, terrifico, igienico, mortale, freddo, incandescente.

Una ricognizione come questa potrebbe essere anche più lunga, naturalmente, e completata da particolari esempi di cose bianche; potrebbe finire col riproporre, anche variandone la casistica, quanto già tentato da Melville in un capitolo sulla bianchezza della balena.

Comunque rimarrebbe un elenco vago e ambiguo, come forse ambigua e contradditorria è propriamente la natura del bianco.

Una forma di contraddittorietà, graduata su livelli diversi, sembra anche essere il fondamento della pittura di Andrea Mariconti: una somma di informazioni multiple e contrarie che nei dipinti si traduce in interferenza sensoriale: Interferenze è una serie ampia e relativamente recente di opere concentrate sulla presenza, anche parziale o interrotta, della figura umana nello spazio abitativo, sul suo rapporto con lo spazio stesso e gli oggetti che lo definiscono.

L’immagine dell’uomo, osservato come trama di rapporti (spaziali, affettivi, nervosi, oggettuali), è affidata essenzialmente a due canali concomitanti: un uso calibrato e oppositivo di materiali eterogenei, organici e inorganici (olio e acrilico, carta da fotocopiatrice e carta di riso, legno, cenere e limatura di ferro), oltre che a una visione sovrapposta e simultanea di una figurazione esplicita, di stampo classicista ma implicitamente virata in chiave espressionista, e, in trasparenza, di una composizione spaziale rigorosa e minimalista.

Una tale soluzione di elementi, organizzata con equilibrio, che non sembra mai sbilanciarsi a favore (o a danno) dell’uno o dell’altro, porta alcune conseguenze, anch’esse intimamente contraddittorie, nell’ambito della percezione di questi lavori.

A un primo livello si verifica un’intersezione semantica, una forzatura dei limiti linguistici della pittura a diventare essa stessa oggetto e, quindi la necessità di assumere, anche in forma spuria o appena suggerita, componenti di un lessico effettivamente scultoreo; in questo senso, dunque, la pittura di Mariconti sembra essere a un tempo antimoderna nella scelta di un impianto da cavalletto e ultramoderna nell’adesione alla letteralità del supporto pittorico e alle proprietà organolettiche dei materiali.

A un ulteriore (e forse meno esplicito) grado si osserva un paradosso cromatico: la cenere, che potrebbe apparire come l’unico elemento colorato di queste opere, è utilizzata invece come materiale, come corpo piuttosto che colorazione di un corpo; l’impiego che ne viene fatto e, quindi, il suo valore è piuttosto strutturale che non mimetico o cosmetico.

D’altra parte il bianco, che si sarebbe naturalmente portati a vedere come assenza di colore, diventa oggetto di un trattamento implicitamente cromatico nella diversificazione delle textures derivata dalle reazioni dell’olio con l’acrilico, dal colore steso con il pennello o con la spatola, sul lino, sul cotone o sulla carta, scoperto o schermato da pellicole semitrasparenti di carta di riso imbevuta di olio.

C’è una continua instabilità nell’apparente uniformità del bianco (che non si chiude mai completamente attorno alla figura e di cui la figura costituisce, a questo punto l’interferenza più evidente) e, in definitiva, sembra essere in questa dinamica rallentata l’ingrediente che più di altri conferisce temperatura a queste immagini, contrariamente alla loro apparente freddezza; temperatura che si realizza come un’acuta sensazione di attesa, da parte dell’uomo, di riconoscersi nel rapporto con lo spazio e con le cose.

Le tensioni costruttive e percettive che nei primi lavori erano affidate a una regia interferita, nella più recente serie Rumore bianco, in cui Mariconti raggiunge un ulteriore grado di rarefazione e in cui sembra traslata visivamente la medesima dinamica che informa il fenomeno acustico, sono tradotte in una dimensione più strettamente temporale e uditiva.

La visione bianca e frammentata, apparentemente ferma e silenziosa, di una tavola apparecchiata con piatti e stoviglie nell’istante precedente e successivo al pasto, descrive, al fondo, un movimento più adatto a essere percepito come radiazione dello spazio che come presenza oggettuale nello spazio.

L’abbassamento (o la saturazione) nel bianco dei dettagli descrittivi relativi all’hic porta naturalmente all’intensificazione della sfera del nunc: non soltanto per il fatto che tutte le tele, nel loro insieme, costituiscono una sequenza, ma piuttosto perché ognuna di esse, col suo carattere di frame, sembra descrivere un istante di tempo estratto da un flusso temporale ininterrotto, sembra fare una radiografia dell’istante (in cui la cenere porta un’eco del blu cinerino delle lastre), oppure, in senso visivo e acustico insieme, sembra mostrare, più che gli oggetti in sé, lo spettro (sonoro) degli oggetti. Eppure anche questo tipo di visione mantiene come punto focale la presenza dell’uomo, per quanto attraverso un paradosso; è, in definitiva, una forma di presenza in assenza: nell’attesa degli oggetti per l’azione umana e, poi, nei segni dell’azione umana sugli oggetti.

Francesco Gesti

Biografia
Nato a Lodi nel 1978, vive e lavora a Milano.
Si laurea nel 2001 presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, indirizzo Arti Visive, e nel 2006 in Scenografia e Discipline dello Spettacolo. Nel 2003 viene nominato assistente alla cattedra di Tecniche pittoriche e Anatomia presso la Nuova Accademia di Belle Arti a Milano.
Nel 2005 è invitato a curare la realizzazione di scene e costumi per il Flauto Magico di W.A. Mozart rappresentato al Suntory Hall di Tokyo nel 2006. Soggiorna in Kosovo nel 2005 e nel 2006 per un progetto di arte terapia per bambini affetti da traumi psichici di guerra, ed è docente del laboratorio teatrale nel corso per allievi disabili presso il CFP di Lodi.
Sempre nel 2005 partecipa ad un workshop tenuto da Anselm Kiefer in occasione della preparazione dell’installazione presso l’Hangar Bicocca I Sette Palazzi Celesti.
Nel 2007 espone alla Galleria Pittura Italiana con un testo di Fabrizio Dentice, mentre nel 2009 viene organizzato insieme a Federico Rui un workshop di arte terapia per bambini orfani presso il Rainbow Center di Cape Town, cui segue la personale alla Bell Roberts Gallery dal titolo
“No more me”.

Opere

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